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Riflessioni, notizie, suggerimenti che più mi sono "a cuore" per il nostro cuore
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Il colesterolo elevato?

So che rappresenta un problema ma la cosa non riguarda me.
Stando ad una recente indagine condotta da Iqvia per Mylan, la maggioranza degli italiani è consapevole che il colesterolo alto è il terzo fattore di rischio cardiovascolare dopo l’ipertensione arteriosa e la glicemia elevata, ma non ritiene lo sia per se stessi:

Il 63% di chi ha valori di colesterolemia normale ritiene poco probabile di ritrovarsi con un’ ipercolesterolemia in futuro.

Consola scoprire che sei persone su dieci hanno fatto almeno una valutazione del colesterolo totale nell’arco degli ultimi dodici mesi, ma poi pochissimi si ricordano l’esito o sanno capire se c’è di che preoccuparsi. Infatti l’86 per cento non sa neanche quale sia il valore soglia per LDL (colesterolo cattivo) e HDL (colesterolo buono), uno su due non ne ha idea neppure per il colesterolo totale.

Il dato più allarmante è la scarsa consapevolezza del rischio personale: il 34 per cento di chi ha dichiarato di avere i valori di colesterolo nella norma in realtà li ha borderline o sopra la soglia.

Queste la reazione del dott. Alberico Catapano, docente di farmacologia del dipartimento di Scienze Farmacologiche e Biomolecolari dell’Università di Milano e coordinatore delle nuove linee guida sulle dislipidemie dell’European Society of Cardiology, rilasciate in una recente intervista al Corriere della Sera:
«Non mi sorprende, la consapevolezza reale è ancora poca», ammette. «Le soglie personalizzate non aiutano, perché i pazienti vorrebbero un numero solo valido sempre e per tutti; e non aiutano i referti degli esami, dove di solito viene scritto che un valore è “normale” senza metterlo in relazione al livello di rischio cardiovascolare del singolo. Ognuno dovrebbe invece conoscere il proprio colesterolo e il proprio obiettivo, iniziando a farlo presto: ridurre di appena 20 mg/dl il colesterolo ma mantenere questo risultato per tutta la vita taglia del 40 per cento il rischio cardiovascolare, un effetto non sempre ottenibile coi farmaci. Controllare il colesterolo quando si supera la pubertà, ripetere i test regolarmente e mantenerlo sempre nei limiti è il modo migliore per non dover poi ricorrere alle terapie».
Eccesso di calorie
«L’errore principale è esagerare con le calorie rispetto al fabbisogno energetico: è questo, insieme all’eccesso di grassi saturi, a facilitare la sintesi del colesterolo. Gran parte del colesterolo in circolo è infatti prodotto dal fegato, la quota dal cibo è minima, circa 400 milligrammi sui 2,5 grammi di colesterolo che ogni giorno viene gestito dal nostro organismo. Non bisogna quindi demonizzare i cibi che ne sono ricchi, come l’uovo, ma occorre piuttosto contenere le calorie, ridurre i grassi saturi ed eliminare i grassi trans (che derivano dai processi industriali con cui vengono idrogenati gli oli vegetali), i più dannosi», conclude Catapano nella sua intervista al Corriere della Sera.
Un esempio per tutto il mondo
La storia di Brisighella, in provincia di Ravenna, che dal 1972 è un «paese-laboratorio» in cui sono stati sperimentati vari progetti per la lotta al colesterolo: il rischio cardiovascolare degli abitanti è diminuito negli anni ed è un esempio di intervento virtuoso su un’intera popolazione che il mondo ci invidia.

Il segreto? Uno stile di vita sano, perché solo con le buone abitudini quotidiane i benefici restano nel lungo periodo. Le raccomandazioni sono quelle classiche: astensione dal fumo, un’attività fisica regolare (30-40 minuti di camminata in pianura, quotidianamente, meglio se accompagnati) e soprattutto una dieta equilibrata.
Colesterolo alto ereditario, un rischio aggiuntivo
A causa di una predisposizione genetica, alcune persone convivono con valori di coleterolemia LDL molto più alti della norma sin dai primi anni di vita, tale da poter determinare un infarto già in età giovanile.

Ma l’ipercolesterolemia familiare è sotto-diagnosticata e ancor meno curata: lo hanno sottolineato di recente gli esperti durante il congresso dell’European Society of Cardiology, dove uno studio ha dimostrato come questi pazienti abbiano un rischio di infarto da dieci a tredici volte più alto del normale, il primo attacco di cuore vent’anni prima degli altri ma si curano per il colesterolo alto solo nel 48 per cento dei casi.
Ipercolesterolemia familiare, i 4 segnali di allarme
«Avere una storia familiare di attacchi cardiaci in età giovanile è uno dei quattro segni che devono far sospettare una possibile ipercolesterolemia su base genetica e spingere ad approfondimenti», osserva Maurizio Averna del Centro Dislipidemie Genetiche del Policlinico Giaccone di Palermo.
«Gli altri elementi sono problemi cardiologici, come angina o infarto, in età giovanile; livelli di colesterolo Ldl superiori a 190 nell’adulto o a 160 nel bambino; infine ci sono gli accumuli di colesterolo visibili, o xantomi. Tipici ma presenti solo nel 40-50 per cento dei casi, sono “granulosità” su gomiti, dita e dorso delle mani».
La malattia è genetica dominante: basta perciò ereditare una copia del gene difettoso dal padre o dalla madre per manifestare il problema e avere quindi il 50 per cento di probabilità di trasmetterla ai propri figli.

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Per approfondimenti https://www.cardiologiaoggi.com/colesterolo-elevato-intervenire-subito-puo-salvare-la-vita/

 


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Stiamo diventando tutti più stupidi. Pesano stili di vita e potenza della tecnologia.

Che ha bloccato la crescita del nostro Q.I.

 

l nostro cervello è diventato come un elettrodomestico. La tecnologia ha migliorato prestazioni, efficienza, risultati, e ha consentito così da un lato di spingere verso nuovi consumi dall’altro versante di aumentare i prezzi. Ma la qualità degli apparecchi, misurata attraverso la loro durata, diminuisce. Come se questo fosse un fattore poco rilevante e non decisivo.

INTELLIGENZA

Con l’intelligenza sta accadendo più o meno la stessa cosa. Tra le cose che stanno diminuendo nel vortice della modernità, dove lo spazio per farsi delle domande è sempre più ristretto, c’è proprio l’intelligenza. Incredibile ma vero: per quanto continuano ad aumentare in modo esponenziali strumenti di informazione, di conoscenza e di relazione, grazie appunto alle opportunità che arrivano dal progresso tecnologico, il nostro QI (Quoziente intellettivo) diminuisce.

 

INTELLIGENZA IN DIMINUZIONE

Stiamo diventando più stupidi. Maledettamente meno intelligenti, e non di poco. Gli scienziati ci avvertono: nel corso dell’intero Novecento eravamo abituati a una progressione costante del nostro quoziente intellettivo, si chiamava “effetto Flynn“, dal nome del professore di Filosofia James Flynn (Università di Otago in Nuova Zelanda) che conduceva molto puntualmente gli studi e i test sul QI (Quoziente Intellettivo) nei paesi industrializzati.

Flynn, fin quando ha vissuto, ci ha sempre rassicurato. La crescita della nostra intelligenza è stata ininterrotta, attorno allo 0,3 per cento l’anno, e non è poco, e considerando l’accelerazione del progresso tecnologico e degli apparati elettronici, tutto lasciava immaginare un radioso futuro per il nostro cervello.

 

INTELLIGENZA IN CALO

In realtà le cose stanno andando proprio nella direzione opposta. Secondo un recente studio, realizzato da Brent Bratsberg e Ole Rogeberg del Centro Studi Economici “Ragnar Frisch” in Norvegia, dal 1975 è iniziata una progressione all’incontrario. Mai spezzata. Tanto che oggi ci ritroviamo con 7 punti in meno, nel nostro quoziente intellettivo, rispetto a mezzo secolo fa, un vero tracollo.

Diciamo subito che l’attendibilità della ricerca è fuori discussione, e i suoi risultati sono stati pubblicati integralmente sulla rivista Procedings of the National Academy of Sciences a conferma della loro serietà. I testi sono stati svolti dal team degli scienziati norvegesi in un arco di tempo molto ampio, circa 40 anni, su 730mila persone, utilizzando le analisi alle quali sono sottoposti ogni anno i giovani norvegesi di 18 e 19 anni che iniziano il servizio militare obbligatorio nel paese del Nord Europa. D’altra parte, studi analoghi, in Inghilterra, negli Stati Uniti e in Germania, hanno portato alla stessa conclusione: “l’effetto Flynn” si è esaurito e dobbiamo fare i conti con un’umanità più stupida, e in quanto tale anche più pericolosa.

IGNORANZA RENDE STUPIDI

Restano aperte, invece, le possibili  risposte alla domanda dei cento coltelli: “Per quale motivo la nostra intelligenza sta diminuendo”?. Qui entriamo nel campo delle ipotesi, alcune anche di un certo fascino. La prima riguarda la curva demografica: le persone intelligenti fanno meno figli, hanno una prole meno numerosa, mentre gli stupidi sono di più perché si riproducono più rapidamente. Un’equazione ben nota ai più anziani che certo ricordano un vecchio proverbio popolare: “Le mamme dei fessi sono sempre gravide“.

A prescindere dal materiale genetico, che comunque può incidere fino a un certo punto sulla “caduta della ragione” ci sono poi alcuni fattori ambientali che pure pesano. Gli stili di vita, a fronte di un vertiginoso progresso tecnologico, sono spesso peggiorati nel mondo industrializzato. Per esempio: una cattiva alimentazione (con poco pesce e dunque pochi acidi grassi insaturi che sostengono lo sviluppo del sistema nervoso), uno scarso movimento, un contesto ambientale poco salubre, sono tutti fattori che incidono sull’abbassamento del QI. Come la mancanza di sonno, una vera e propria epidemia nelle società più sviluppate.

Secondo Gerald Crabtee, professore della Stanford University, siamo arrivati a un punto molto pericoloso dello spreco della nostra intelligenza: non la consideriamo più necessaria, e siamo convinti che ne possiamo fare a meno. Scrive Crabtee: «Sono pronto a scommettere che se un cittadino medio di Atena del 1.000 avanti Cristo comparisse tra di noi, verrebbe considerato la mente più vivace e brillante tra i nostri amici e colleghi».

COME NON SPRECARE L’INTELLIGENZA

C’è infine una terza causa, sulla quale si sta indagando in modo più approfondito, che forse possiamo considerare la più interessante, dal punto di vista degli sprechi potenziali che l’uomo, anche inconsciamente, può consumare. L’intelligenza, ovvero la capacità di osservare, analizzare e adattare i nostri comportamenti a qualsiasi circostanza ed a qualsiasi cambiamento, non è qualcosa di statico. Il cervello non si eredita, da padre in figlio, anche se esiste una componente significativa dal punto di vista genetico. Lo potete osservare facilmente con un mini-test sul campo: quanti figli stupidi di genitori intelligenti conosciamo? Non certo pochi.

Per la sua crescita l’intelligenza ha bisogna anche, e forse in modo essenziale, di cultura, conoscenza, condivisione. Tutti fattori di una crescita dell’uomo graduale, di lungo periodo, e non estemporanei. Questi fattori oggi sono messi a dura prova dal dilagare del computer, con tutti i suoi addendi, e da una cultura sempre più dipendente dal web, e quindi frettolosa, superficiale, incompleta e poco resistente. Una cultura su misura per azzerare la conversazione, altro elemento essenziale per una crescita dell’intelligenza. Qualsiasi conversazione, anche la più leggera e apparentemente banale: purché sia reale, guardando negli occhi gli interlocutori, e non virtuale, solo a colpi di tweet e di insulti sul web.

 

 

Per approfondimenti 


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Per restare in salute, l’attività fisica è indispensabile. Anche per combattere malattie cardiovascolari e cancro!

Gli esperti del Sistema sanitario britannico lo avevano detto: l’esercizio fisico andrebbe prescritto come una medicina, sullo stesso ricettario. Perché il movimento può essere altrettanto efficace di un farmaco per il cancro e le malattie cardiovascolari, ma non sempre viene preso sul serio dai pazienti. Eppure un’attività fisica regolare può allungare la vita anche di quattro anni.

Lo sport agisce sui sistemi metabolici dell’organismo e oggi ci sono dimostrazioni scientifiche del fatto che la pratica sportiva fa bene alla salute. Lo dicono anche i risultati degli studi epidemiologici che, almeno per alcuni tipi di tumore, mostrano un forte legame tra il cancro e la mancanza di esercizio fisico. La speranza è che, col tempo, accada quel che è già è accaduto col cibo: siamo diventati tutti più consapevoli di ciò che mettiamo in tavola. Conosciamo le proprietà benefiche di molti alimenti e cerchiamo di educare i più giovani a una sana alimentazione. Per il movimento e lo sport sarebbe auspicabile che accadesse la stessa cosa: riuscire a diventare “esperti” in tutto ciò che ci aiuta a prevenire le malattie più gravi.

Come agisce?

I ricercatori hanno capito in che modo l’attività fisica agisce su alcuni meccanismi essenziali dell’organismo, come il metabolismo energetico e ormonale, l’infiammazione, il sistema immunitario.

Muoversi aiuta a restare in forma, a mantenere giovane l’apparato muscolo-scheletrico e circolatorio e a perdere peso. Per questo non ci sarebbe bisogno di guardare agli studi scientifici: basta l’esperienza personale. Lo sport e il movimento hanno però altre virtù nascoste, che oggi i ricercatori sono in grado di studiare nel dettaglio e che spiegano anche gli effetti preventivi nei confronti delle malattie cardiovascolari e del cancro.

Innanzitutto è bene distinguere tra due tipi di attività fisica: quella aerobica (che si attiva dopo circa 3-4 minuti di sforzo intenso e si stabilizza dopo 20), in cui il tessuto muscolare utilizza ossigeno per sintetizzare l’ATP, la molecola che fornisce energia al processo; e quella anaerobica, in cui la sintesi di ATP avviene in assenza di ossigeno.

Con l’esercizio anaerobico i muscoli si allenano e si rinforzano, ma non c’è accelerazione del battito cardiaco. È quindi meno efficace in termini di prevenzione delle malattie, in particolare di quelle cardiovascolari.

L’attività aerobica regolare aiuta invece a ridurre l’indice di massa corporea e quindi, in modo indiretto, a prevenire i tumori legati al sovrappeso e all’obesità . L’aumento del flusso di sangue ossigena i tessuti, facilitando anche l’arrivo di sostanze antinfiammatorie (l’infiammazione, specie se cronica, favorisce la comparsa di mutazioni nelle cellule e di conseguenza la trasformazione del tessuto sano in tumorale) e l’eliminazione delle sostanze tossiche accumulate. Questo processo avviene anche nel polmone, che è un organo riccamente vascolarizzato la cui funzione è proprio l’ossigenazione del sangue e l’eliminazione delle sostanze di scarto.

Muoversi accelera il transito intestinale. Più lungo è il tempo in cui le sostanze di scarto dell’alimentazione rimangono in contatto con le mucose di stomaco e intestino e più alto è il rischio che eventuali composti tossici o mutageni danneggino le cellule. L’accelerazione del tempo di transito del cibo nell’apparato gastroenterico è considerata una delle principali ragioni per cui il movimento previene il cancro del colon.

Una pratica sportiva costante e moderatamente intensa riduce, invece, la concentrazione di alcuni ormoni (trai quali gli estrogeni) a cui sono sensibili tumori come quelli dell’utero, del seno e della prostata. Inoltre lo sport aumenta la sensibilità dei tessuti all’insulina e ne diminuisce il rilascio nel sangue, favorendo l’utilizzo immediato degli zuccheri. L’insulina, pur essendo un ormone essenziale per l’organismo, se troppo elevata nel circolo sanguigno stimola in modo eccessivo l’infiammazione e facilita la crescita dei tumori. È proprio per questo che, quando si parla di prevenzione con l’alimentazione, si suggerisce sempre il consumo di alimenti a basso indice glicemico, cioè quelli che aumentano lentamente il livello di insulina nel sangue.

Infine l’attività fisica stimola il sistema immunitario, regolando il numero e l’attività di alcune cellule essenziali, fra cui i macrofagi e i linfociti natural killer, implicati nel cancro.

Movimento e cancro

Non è mai semplice dimostrare che un certo stile di vita apporta davvero dei benefici tangibili in termini di prevenzione delle malattie, perché i fattori confondenti possono essere molti. L’esercizio non fa eccezione. Eppure diversi studi epidemiologici sono riusciti a fornire una prova della sua utilità nei confronti di specifici tumori. Vediamo quali.

Gli effetti dell’attività fisica sul cancro del colon sono quelli più studiati. Disponiamo di più di 50 studi specifici di buona qualità che dimostrano una riduzione del rischio di ammalarsi, proporzionale all’intensità, durata o frequenza della pratica sportiva. Alcuni studi stimano che le persone attive abbiano un rischio di sviluppare questo tipo di tumore inferiore del 30-40 per cento rispetto alle persone sedentarie. I benefici massimi si ottengono con 30-60 minuti di attività fisica intensa (come una corsa ad andatura sostenuta) al giorno, ma anche un impegno minore apporterà benefici in proporzione, purché sia un’attività continuativa e non spezzata nell’arco della giornata. L’effetto protettivo è dimostrato con certezza per il colon, un po’ meno per il cancro del retto. Muoversi riduce la massa corporea (e l’obesità è un fattore di rischio importante per questo tumore), ma anche il tempo di contatto tra le sostanze di scarto e la parete intestinale, riducendo quindi gli effetti tossici e infiammatori.

E il cancro del seno? Anche in questo caso disponiamo di oltre 60 studi eseguiti in tutto il mondo e i risultati sono piuttosto chiari: un’attività fisica frequente e intensa riduce anche il rischio di sviluppare questo tumore. Alcuni studi hanno verificato cosa accade alle donne che dopo la menopausa, nel momento di maggior rischio di ammalarsi, iniziano ad allenarsi, dimostrando che anche in questo caso vi è un beneficio in termini di riduzione del rischio se confrontato con quello delle donne sedentarie. Una mezz’ora di attività intensa giornaliera (come mezz’ora di corsa) sembra sufficiente per attivare i meccanismi protettivi tra i quali la riduzione del peso, degli ormoni circolanti (nelle donne prima della menopausa) e del fattore di crescita insulino simile (IGF-1), migliorando così anche l’attività del sistema immunitario.

Gli studi sul cancro dell’endometrio, sebbene meno numerosi, dimostrano anch’essi una riduzione di questo tumore del 20-40 per cento, proporzionale all’intensità e frequenza dell’impegno fisico. I benefici sono presenti in tutte le età. I meccanismi protettivi principali dipendono dalla riduzione del peso e dalla conseguente diminuzione degli ormoni femminili in circolo.

Alcune ricerche si sono concentrate sul cancro del polmone. In questo caso sembra che l’attività sportiva riduca del 20 per cento circa il rischio di ammalarsi, ma non è in grado di contrastare gli effetti negativi del fumo, specialmente nelle donne.

Infine vi sono numerosi studi sul cancro della prostata che non sono però riusciti a dimostrare una riduzione significativa del rischio, benché i ricercatori ipotizzino che gli effetti positivi ci possano essere, perché si tratta di un cancro sensibile agli ormoni, che vengono ridotti dalla pratica sportiva. Sono però necessarie ulteriori ricerche per confermarlo, anche se uno studio del 2005 ha dimostrato un rallentamento della progressione della malattia in uomini che, pur malati, praticano un’attività sportiva regolare.


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 Vaccinarsi è un gesto d’amore per sé stessi e per gli altri

 

Negli ultimi giorni diversi stati, Italia compresa, hanno sospeso in via precauzionale la somministrazione del vaccino per chiarire alcuni aspetti relativi a questo fenomeno. Sul fronte del rischio di sviluppare eventi trombotici quali infarti ed embolie polmonari i dati parlano chiaro. Ema, l’ente europeo che regola l’immissione in commercio dei farmaco, ha ribadito a più riprese che il “numero di eventi tromboembolici complessivi nelle persone vaccinate non sembra essere superiore a quello osservato nella popolazione generale”. Perché allora la temporanea sospensione?

 

IL CASO DELLE TROMBOSI CEREBRALI DEL SENO VENOSO

La risposta è da ricercarsi in Germania. Il Paul Ehrlich Institut ha infatti avuto segnalazione di 7 eventi di trombosi cerebrale del seno venoso associata a trombocitopenia avvenuti in prossimità temporale con la vaccinazione. Eventi estremamente rari (7 su 1.7 milioni di somministrazioni) ma più frequenti rispetto al resto della popolazione che hanno portato al temporaneo stop per chiarire il presunto legame su questo specifico evento. Ma nell’attesa che EMA si pronunci definitivamente giovedì 18 marzo, le persone che si sono sottoposte al vaccino o che hanno problemi di coagulazione del sangue non devono affatto preoccuparsi circa il rischio trombosi in relazione al vaccino.

 

IL VACCINO NON AUMENTA IL RISCHIO TROMBOSI

A fugare ogni dubbio ci ha pensato la Società Italiana per lo Studio Emostasi e Trombosi (SISET). Secondo i dati del sistema di vigilanza europeo degli eventi avversi “EudraVigilance”, al 10 marzo si sono registrati 30 casi di eventi trombotici in 5 milioni di soggetti vaccinati con il vaccino AstraZeneca. Questo numero è paragonabile al tasso di trombosi abitualmente registrato nella popolazione generale e al momento non è possibile stabilire se ci sia stato un nesso di causalità tra la vaccinazione e gli eventi trombotici o se gli eventi siano avvenuti solo per coincidenza. Non solo, negli studi registrativi con stretta sorveglianza degli eventi avversi non è stato segnalato alcun aumento del rischio di trombosi.

 

VACCINAZIONE RACCOMANDATA A CHI HA PROBLEMI DI COAGULAZIONE

Ma c’è di più perché nella realtà dei fatti sono proprio le persone con problemi di coagulazione del sangue a necessitare della vaccinazione. Secondo la SISET, dal momento che le forme importanti di Covid-19 sono associate ad un significativo aumento del rischio trombotico, gli esperti ritengono che con i dati attualmente disponibili i benefici della vaccinazione superino nettamente i potenziali rischi e raccomanda la vaccinazione a tutti i soggetti, compresi i pazienti con storia pregressa di complicanze trombotiche e i soggetti portatori di anomalie della coagulazione di tipo trombofilico.

 

I CONSIGLI PER LA VACCINAZIONE

Al di là della vaccinazione con AstraZeneca, in linea generale chi soffre di disturbi della coagulazione dovrebbe concordare con il proprio medico o quello del centro trombosi se sia eventualmene il caso di saltare una dose di anticoagulante la sera prima dell’iniezione per evitare fenomeni emorragici in sede di iniezione. Ulteriore accortezza, dopo l’iniezione del vaccino occorre premere forte il punto dell’iniezione per almeno 5 minuti. La terapia anticoagulante richiede infatti una pressione più prolungata rispetto ai due minuti previsti per gli altri soggetti per evitare la formazione di ematomi.

 

 

NO AGLI ANTICOAGULANTI FAI DA TE

Quanto alla popolazione generale, quella a cui maggiormente è stata somministrata la vaccinazione AstraZeneca (insegnanti, forze dell’ordine ecc…) è sconsigliato, perché non basato su nessuna evidenza, l’impiego di farmaci antitrombotici in occasione o dopo la vaccinazione, a meno che non siano già assunti per una prescrizione medica precedente. Non solo, effettuare in assenza di sintomatologia esami di laboratorio o strumentali tesi a monitorare un supposto rischio trombotico non ha motivazione. Sintomi evocativi di tromboembolismo quali edema o dolore agli arti, dolore toracico, difficoltà respiratoria, cefalea persistente, vanno riferiti al proprio medico e attentamente valutati, indipendentemente dalla pratica vaccinale.

 

cit. Fondazione Veronesi


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Dai dati epidemiologici disponibili fino ad oggi sembra che esista una differenza di genere tra uomini e donne a proposito del rischio di infezione e di mortalità da Covid-19 a vantaggio delle donne, come già dimostato in passato per il rischio cardiovascolare.

dati italiani confermano questo andamento: l’ultima analisi dell’ISS su un campione di 18.641 pazienti deceduti e positivi all’infezione in Italia, ha evidenziato che le donne sono 6339 (il 34,0% del totale) e che le donne decedute dopo aver contratto infezione da SARS-CoV-2 hanno un’età più alta rispetto agli uomini (età mediane: donne 83 – uomini 79).

In Toscana, secondo quanto riportato nell’ultimo rapporto ARS, i maschi necessitano più frequentemente delle donne del ricovero ospedaliero (tasso di ospedalizzazione: 54,3 per 100.000 residenti vs 33,7) e della terapia intensiva (tasso di ricovero in terapia intensiva: 6,3 per 100.000 vs 1,6). Si rileva una maggior letalità per il genere maschile: a fronte di un dato complessivo del 5,7%, la letalità dei maschi è il 7,6% mentre quella delle femmine il 3,8%.

Questo potrebbe dipendere da vari fattori, alcuni dei quali già dimostrati per il rischio cardiovascolare:

  • gli uomini hanno la tendenza a fumare maggiormente rispetto alle donne e, come sappiamo, il fumo rappresenta un fattore di rischio per contrarre la malattia e per sviluppare un quadro clinico più grave
  • le donne sono più attente all’igiene personale e al lavaggio delle mani
  • uomini e donne inoltre differiscono anche nella risposta immunitaria: le donne sviluppano maggiori risposte immunitarie verso patogeni, compresi i virus, motivo per cui sono meno suscettibili a contrarre infezioni da microrganismi.

Nuove evidenze scientifiche mostrano che, tra uomo e donna, vi sono delle differenze nei meccanismi alla base dell’infezione.

Differenze che possono essere sia di tipo ormonale che genetico.

Per quanto riguarda le differenze ormonali, sono proprio gli ormoni sessuali che agiscono come importanti modulatori delle risposte immunitarie.
È ormai noto che il nuovo coronavirus Sars-Cov-2 entri nelle cellule umane bersaglio tramite un enzima detto di conversione dell’angiotensina II (ACE2), il quale si trova localizzato sull’endotelio dei capillari polmonari, da dove protegge il polmone dai danni causati dalle infezioni, infiammazioni e stress. Quando il virus si lega ad ACE2 ed entra nella cellula, fa diminuire la sua espressione e lo sottrae così allo svolgimento della sua funzione protettiva.
Nelle donne in età fertile gli estrogeni sono in grado di aumentare la presenza del recettore ACE2 facendo sì che questo enzima, anche dopo l’infezione, riesca a svolgere la sua funzione di protezione, in particolare nei confronti dei polmoni. Viceversa gli ormoni androgeni sembra che svolgano un ruolo opposto nell’influenzare l’espressione di enzimi cellulari coinvolti nelle fasi che seguono l’attacco del virus al recettore, favorendo le fasi successive dell’infezione delle cellule polmonari.

Infine non va dimenticata la differenza legata ai cromosomi sessuali.
Come sappiamo, nelle cellule femminili ci sono due cromosomi X mentre nelle cellule maschili sono presenti un cromosoma X e un cromosoma Y. Nelle cellule femminili quindi, per impedire la ridondante espressione dei prodotti dei geni presenti in doppia copia sui cromosomi X, si verifica una fisiologica inattivazione casuale di uno dei due cromosomi. Tuttavia restano porzioni cromosomiche che sfuggono l’inattivazione e i geni presenti in queste zone possono essere sovraespressi nelle donne. ACE2 è codificato proprio in queste regioni del cromosoma X che sfuggono all’inattivazione di uno dei due cromosomi X, sostenendo così l’ipotesi di una maggiore espressione di questa proteina nei polmoni delle donne.

Si sottolinea come sia necessario, quindi, approfondire ed effettuare studi specifici, anche retrospettivi, per valutare il ruolo degli ormoni sessuali nelle differenze di genere riscontrate durante questa pandemia, aspetto che invece è già stato verificato nel calcolo del rischio cardiovascolare.

Cit. Cardiologia Toscana


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Menopausa e cambiamenti cardiovascolari

La menopausa rappresenta una fase naturale che segna la fine del periodo fertile nella donna. È caratterizzata dalla cessazione delle mestruazioni e da una ridotta funzione ovarica, con l’assenza di produzione di follicoli ovarici e ridotta produzione di estrogeni. Questi ormoni hanno degli effetti benefici sul cuore e sui vasi, in quanto regolano la reattività vascolare, la pressione arteriosa, la funzione endoteliale e il rimodellamento cardiaco. Inoltre, gli estrogeni regolano anche il sistema immunitario

Cit. da  cardiologia oggi


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La sindrome respiratoria acuta grave (SARS) causata da coronavirus 2019 (COVID-19)

è rapidamente cresciuta in una pandemia. I rapporti provenienti da tutto il mondo confermano che una grossa percentuale di pazienti colpiti dall’infezione ha una patologia cardiovascolare sottostante (1). In una recente review di Madjid M e collaboratori, pubblicata su JAMA Cardiology ha esaminiamo i potenziali effetti del coronavirus sul sistema cardiovascolare.

I dati provenienti dalle precedenti epidemie da coronavirus e dalle epidemie influenzali stagionali indicano che le infezioni virali possono scatenare sindromi coronariche acute, aritmie sopraventricolari e ventricolari, e favorire l’insorgenza o la riacutizzazione di una insufficienza cardiaca, principalmente a causa di una combinazione di risposta infiammatoria sistemica e infiammazione vascolare localizzata al livello della placca ateroscletorica.

maggiori informazioni sul sito AIAC Associazione Italiana di Aritmologia e Cardiostimolazione


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Appello alla prevenzione: il cuore non aspetta

Cardiologia e Covid, 4 su 10 non vanno in ospedale per paura del contagio.

La Cardiologia Interventistica Italiana è un’eccellenza mondiale, ha scritto i protocolli di sicurezza contro il contagio per il resto del mondo e ha cambiato le linee guida internazionali per il trattamento dell’infarto. Prof. Giuseppe Tarantini, presidente GISE: “Le procedure invasive oggi sono più che mai strategiche: salvano la vita, ne aumentano l’aspettativa, riducono i tempi di degenza e possono evitare la terapia intensiva”

Questo l’appello di Giuseppe Tarantini, Direttore Emodinamica e Cardiologia Interventistica dell’Azienda ospedaliera Università di Padova e Presidente del GISE, la Società Italiana di Cardiologia Interventistica che ha promosso Sicuri al cuore, la prima campagna nazionale per riportare in ospedale i pazienti cardiovascolari spaventati dal contagio da Covid-19.

maggiori informazioni qui: https://www.insalutenews.it/in-salute/cardiologia-e-covid-4-su-10-non-vanno-in-ospedale-per-paura-del-contagio-appello-alla-prevenzione-il-cuore-non-aspetta/

immagine dal web


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COSA SIGNIFICA DONARE?

Donare il sangue è un gesto concreto di solidarietà. Significa letteralmente donare una parte di sè e del propria energia vitale a qualcuno che sta soffrendo, qualcuno che ne ha un reale ed urgente bisogno, significa preoccuparsi ed agire per il bene della comunità e per la salvaguardia della vita.

Donare il sangue è innanzitutto un dovere civico, la disponibilità di sangue è infatti un patrimonio collettivo a cui ognuno di noi può attingere in caso di necessità e in ogni momento.

Una riserva di sangue che soddisfi il fabbisogno della nostra comunità è quindi una garanzia per la salute di tutti, donne, uomini, giovani, vecchi, bambini, compresi noi stessi e le persone che ci sono più care.

Perchè donare (avispescara.it)

 



avis donare il sangue

Competenza e esperienza nella diagnosi cardiologica elettrocardiografica ed ecocardiografica.

Riconoscimento di cardiopatia ischemica cronica;
aritmie cardiache, ipertensione arteriosa e cardiomiopatie.



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Dott. Luca Paolini



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